UN GIALLO ARCHEOLOGICO: LA PRESUNTA TOMBA DI PIETRO A ROMA

(seguite il documentario in due parti di 10+10 minuti realizzato da Quantum Channel – www.quantumacademy.org – basato su questo articolo)

“(…) La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata!

24 dicembre 1950: queste parole di Papa Pio XII risuonarono in tutto il mondo nel radiomessaggio natalizio scatenando l’entusiasmo nei fedeli; fu l’epilogo di una serie di eventi complessi, misteriosi, costellati di errori di procedura e disaccordi tra gli studiosi fino a quando fu così posta la parola fine dal Vaticano e bloccata ogni altra possibilità d’indagine.

Ma ulteriori elementi emersi negli anni hanno gettato nuova luce su questa vicenda destinata a diventare un vero e proprio giallo archeologico, delineando una verità ben diversa dalle parole di Pio XII.

Eugenio Pacelli, Papa Pio XII: fu lui a cominciare la campagna ufficiale di scavi alla ricerca della tomba di Pietro.

COMINCIANO GLI SCAVI NELLE GROTTE VATICANE

Alla morte di Papa Pio XI, Eugenio Pacelli gli successe il 2 marzo 1939 con il nome di Pio XII, sottolineando così la continuità con l’operato di un pontefice a cui era legato da stima e affetto. Proprio per questo Pacelli volle esaudire il desiderio del suo predecessore di essere seppellito nelle Sacre Grotte Vaticane, vicino alla tomba di Pio X e a quella che tradizionalmente si attribuiva a Pietro: questa area costituisce la cripta della Basilica di S. Pietro e si trova esattamente al di sotto della grande cupola.

Interno della Basilica di S. Pietro.

Fu così che in pieno conflitto mondiale cominciarono ufficialmente i lavori sotto l’altare della Confessione e del Baldacchino del Bernini.

C’erano già stati altri scavi, nel 1925 e nel 1939 ma si erano fermati molto presto: questa sembrava l’occasione giusta per confermare la tradizionale credenza che la tomba di Pietro si trovasse nella cripta. Per evitare problemi strutturali si decise di scavare un tunnel sotto l’altare arrivando sotto il pavimento dell’area interessata, evitando il metodo stratigrafico. Questo fu l’inizio di una serie di lavori malfatti e con scarsa coordinazione, al punto che ognuno faceva un po’ per conto suo, senza un brogliaccio o un diario di scavo, con detriti semplicemente ammassati in casse e portati via.

Il Baldacchino del Bernini, sotto il quale si svolse la campagna di scavi alla ricerca della tomba di Pietro.

Il 18 gennaio 1941 gli scavi giunsero nei pressi di un muro in laterizio che fu identificato come parte del Circo di Nerone in cui secondo la tradizione Pietro sarebbe stato martirizzato crocefisso a testa in giù tra il 64 e il 67 d. C.

La campagna di scavi continuò nonostante i bombardamenti – il Vaticano fu colpito da almeno 5 bombe durante il conflitto – ma ciò non bloccò i lavori, che proseguirono fino al 1949. Parteciparono tra gli altri: mons. Ludwig Kaas, Economo e Amministratore della Reverenda Fabbrica di San Pietro, Bruno Maria Apolloni Ghetti, l’architetto incaricato dei rilievi, Enrico Josi, Ispettore della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, il gesuita padre Kirschbaum, professore di Archeologia all’Università Gregoriana, Antonio Ferrua, membro di spicco della Compagnia di Gesù e professore al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, scrittore e articolista della rivista La Civiltà Cattolica.

I risultati dei lavori furono presentati al pontefice con l’opera Esplorazioni sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano Eseguite negli anni 1940-1949, secondo cui nello scavo al di sotto dell’Altare della Confessione si trovò una vasta necropoli che fu denominata “P” in cui emersero varie sepolture a fossa. 

Costantino, secondo alcune fonti, avrebbe spostato le ossa di Pietro da una delle tombe a terra in cui riposavano le ossa di Pietro all’edicola sepolcrale che si trovava nei pressi: questa minuscola struttura fu presto riconosciuta dagli archeologi come il cosiddetto “Trofeo di Gaio”.

Strutture al di sotto dell’Altare della Confessione, su cui si erge il Baldacchino del Bernini.

L’EDICOLA

L’edicola era in pessime condizioni addossata a un muro ricoperto da intonaco rosso, in cui era stata scavata una nicchia. Qui trovavano posto due colonnine che reggevano una lastra di travertino, in cui non si evidenziava alcun simbolo cristiano. E questo è un elemento davvero anomalo per una edicola che si credeva edificata da seguaci di Gesù che tradizionalmente erano soliti lasciare immagini, affreschi, o graffiti che testimoniavano la loro fede.

 Il passo successivo fu l’attribuzione di questa edicola al cosiddetto Trofeo di Gaio, che nelle affermazioni entusiastiche di alcuni specialisti fu una logica conferma a una tradizione orale riportata da Eusebio di Cesarea (265-340) nell’opera Historia Ecclesiastica: è necessario fare chiarezza per capire come questo punto costituisca uno degli anelli più deboli di una intera catena di dati e ritrovamenti che trovò gli archeologi in totale disaccordo.

L’area emersa dagli scavi: si nota la zona denominata “P”, la necropoli pagana e al centro il Muro Rosso con l’edicola sepolcrale e la nicchia
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IL TROFEO DI GAIO

Che cos’è il “Trofeo di Gaio”? Eusebio riporta una storia che sentì raccontare dal suo maestro a Cesarea che a sua volta l’aveva appresa da Origene, secondo cui il cristiano Gaio, al tempo di Papa Zeffirino (200-217) ebbe una disputa con un certo Proclo, seguace del Montanismo, una setta distaccatasi dal Cristianesimo che seguiva l’insegnamento di Montano e le sue rivelazioni.

Eusebio riporta le parole di Gaio a Proclo in Historia Ecclesiastica 2,25,5: “Io posso mostrarti i trofei (tropaion) degli Apostoli. Se vorrai recarti sul colle Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei di questi due (Pietro e Paolo), che fondarono questa Chiesa”.

Eusebio non accenna a spiegazioni ulteriori riguardo a questi “trofei” (tropè, tropaion) che nell’uso dell’epoca erano semplicemente degli elementi commemorativi a seguito di una vittoria: questa testimonianza è in sostanza una storia sentita anni prima da un insegnante che l’aveva appresa da un altro maestro, senza alcun’altra conferma che il semplice sentito dire. La conseguenza è che non può essere accettata come testimonianza storica: eppure fu sostenuta a spada tratta da alcuni degli specialisti e applicata all’edicola ritrovata, che si trovava in una necropoli pagana e su cui non era presente alcun simbolo cristiano.

L’attribuzione dell’edicola al trofeo di Gaio appare oggi una semplice illazione, derivata dalla necessità da parte delle alte gerarchie cattoliche di trovare la Tomba di Pietro ad ogni costo. 

Secondo il Liber Pontificalis che risale al V sec., Costantino volle proteggere l’edicola e le ossa con un doppio sarcofago di argento e bronzo dorato di circa 1,5 mt per lato su cui fu posta una croce di oro massiccio donata dall’imperatore e la madre Elena, costruito e posizionato negli anni 321-326 d. C.

Esattamente al di sopra fu eretta la Basilica Costantiniana, livellando il terreno e sotterrando le tombe. Il loculo era allora protetto da un muro esterno, che fu denominato Muro “G”, perché coperto da graffiti.

Nel tempo vari papi costruirono i loro altari sul luogo attribuito al sepolcro di Pietro, che poggiavano direttamente sopra questa struttura centrale di Costantino: l’altare di Gregorio Magno (590-604) che fu inglobato dall’altare di Callisto I (1123) e sopra di questi l’altare di Clemente VIII (1594).

Ma se quello era il loculo in cui Costantino aveva sepolto i resti di Pietro, dov’erano le ossa?

Nell’846 i Saraceni predarono e saccheggiarono la Basilica, riuscendo a entrare nella cripta e sparpagliando le presunte ossa di Pietro a terra contribuendo a ingarbugliare ancora di più la questione.

Lo specialista protestante Oscar Cullmann, che pure accettava la possibilità che l’edicola fossa il Trofeo di Gaio, si espresse così riassumendo in breve l’intera faccenda: «Ma che tomba è stata trovata? Non c’era il nome, non c’erano le ossa.»

Cullman naturalmente seguiva il fondatore della sua Chiesa, Lutero, che in Contro il papato istituito a Roma dal diavolo (1544) si espresse così: “(…) A Roma non si sa dove siano i corpi dei santi Pietro e Paolo, o addirittura se vi siano. Papa e cardinali sanno benissimo che non lo sanno”.

La statua di Pietro venerata nella basilica omonima

SCAVI APPROSSIMATIVI METTONO A RISCHIO L’INTERO PROGETTO

Gli scavi comunque furono compiuti in modo molto approssimato e lontano dalle tecniche e dalla cautela che ci si aspetterebbe da specialisti: per esempio i sanpietrini (operai scavatori), nella fretta di giungere alla meta, sfondarono con violenza l’altare di Callisto facendo crollare l’antico muro di protezione coperto di intonaco rosso (denominato “Muro Rosso”). Le macerie crollarono nel loculo successivo, sopra le ossa posizionate da Costantino.

Nel caos non si videro subito, ma in seguito esse furono notate da Monsignor Kaas, la cui natura pia gli imponeva di raccogliere le ossa, sia di pagani che di cristiani in una cassa, per dar loro in seguito sepoltura. Queste, tuttavia, ebbero una fine diversa: furono infine dimenticate nelle Grotte Vaticane, dove rimasero per dieci anni. In realtà le ossa nel loculo risultarono essere di animali e umane, e c’è da chiedersi come mai: se fossero realmente state quelle di Pietro non sarebbero mai state mescolate con altre, tantomeno con quelle di animali.

Particolare del piede di Pietro consumato dai secolari baci dei fedeli. La tradizionale credenza che Pietro fosse morto a Roma non si accorda con le indagini archeologiche e storiche.

UN GIALLO ARCHEOLOGICO

Durante gli scavi del 1949, Antonio Ferrua fermò un operaio che trasportava dei detriti su una carriola e colpito da un elemento di intonaco su cui erano presenti delle iscrizioni, decise di prendere il pezzo e portarselo a casa. Lì rimase per molto tempo finché fu di nuovo portato in Vaticano. Ferrua lo aveva fatto per salvare il reperto dal macero.

 Le operazioni continuarono in una seconda fase, dal 1952 al 1957 e Pio XII affidò all’epigrafista Margherita Guarducci il compito di studiare i graffiti sul Muro G, che delimitava la zona intorno al loculo.

“PIETRO Ė QUI”

il pezzo di intonaco giunse nelle mani Della Guarducci che vi trovò tracce di colore rosso e si accorse che si adattava perfettamente a uno spazio sul Muro Rosso per cui comprese che doveva essere caduto da lì; oltre a questo rilevò sette lettere greche che sembravano evidenziare l’iscrizione “Πετρ(ος) ενι” che l’archeologa volle interpretare “Petros eni”, Pietro è qui, e provenendo dal Muro Rosso l’archeologa si convinse di aver trovato la prova definitiva: per lei Pietro era sepolto lì.

Tuttavia le ossa di Pietro non erano state trovate: La Guarducci, investita di una responsabilità immane, cominciò a interrogare tutti coloro che avevano preso parte allo scavo. Si scoprì che Mons. Kaas dopo l’orario di chiusura degli scavi, raccoglieva i frammenti ossei e li metteva in contenitori mal catalogati all’interno delle Grotte Vaticane. La Guarducci riuscì a trovarne uno che nel cartellino indicava la provenienza dal loculo del Muro Rosso, era a terra, separato dalle altre casse di materiali: aprendolo rilevò la presenza di intonaco dipinto di rosso e di minuti campioni di tessuto rossastro intessuto con fili d’oro. I test sulle ossa durarono dieci anni, sino al 1963 e confermarono che si trattava di un unico individuo, maschio, vissuto circa duemila anni fa, uno scheletro quasi completo, mancavano solo le ossa dei piedi, un elemento che sembrò giocare a favore della tesi della crocifissione inversa di Pietro a Roma come affermava la tradizione.

Inoltre, alcuni dei frammenti ossei presentavano tracce di colorazione rossastra e quindi confermarono il contatto con la stoffa rossa per un tempo molto lungo. Gli esami chimici determinarono che si trattava di una colorazione ottenuta mediante tinta di murice e che l’oro era autentico; in pratica le ossa di quell’uomo erano state avvolte in un tessuto regale di porpora e oro. L’esame petrografico del terriccio confermò che i reperti provenivano dalla stessa area del Muro Rosso.

COLPO DI SCENA

Il 28 giugno 1968 fu dato l’annuncio ufficiale al mondo da parte di Paolo VI. Le ossa ritrovate furono posizionate in diciannove contenitori stagni di plexiglass e riposte dove Costantino le aveva sepolte sedici secoli prima

Le Grotte Vaticane, in cui riposano i Papi e si cercò la tomba di Pietro.

Tra gli specialisti che lavoravano al progetto, Kirschbaum fu però di parere contrario a quello del Papa e della Guarducci: lo sostenne in più occasioni sostenuto in questo da altri esperti che nell’iscrizione “Πετρ(ος) ενι” lessero ““Pietro manca”, altri vi lessero “Petronius”, identificando un ricco cristiano sepolto con gli onori del caso, altri esperti lessero addirittura: “Pietro non è qui.”

Gli specialisti non si trovarono d’accordo nemmeno sulla cosiddetta crittografia mistica, che la Guarducci riteneva di aver scoperto tra i graffiti del Muro G: secondo lei si trattava di una scrittura segreta con cui i cristiani volevano lasciare messaggi di auguri di vita eterna ai loro defunti. Questa era una tecnica utilizzata dai pagani ma non si era mai vista tra i cristiani e le argomentazioni dell’archeologa non convinsero gli altri membri del team.

CONTRASTI E DISSIDI

I resti ossei e la loro interpretazione diedero origine a una diatriba che continuò fino alla morte tra l’epigrafista Margherita Guarducci e Antonio Ferrua che contrastava con veemenza l’ipotesi dell’archeologa secondo cui le ossa nel drappo appartenessero a Pietro.

Ferrua era archeologo di fama molto rispettato non solo in ambito cattolico: in due articoli apparsi sulla rivista gesuita La Civiltà Cattolica (“La tomba di San Pietro”, La Civiltà Cattolica, 3 marzo 1990, pp. 460-7 e “Pietro in Vaticano”, La Civiltà Cattolica, 17 marzo 1984, pp. 573-81) si era espresso in maniera piuttosto critica e affermò più volte di ‘non aver potuto pubblicare’ tutte le informazioni in suo possesso, le quali avrebbero demolito la tesi del ritrovamento delle ossa di Pietro sotto l’altare della Confessione.

Ferrua morì nel 2003 a 103 anni e portò avanti fino alla fine una battaglia personale e di coscienza contro le tesi di Margherita Guarducci, ma senza risultati.

In definitiva la scoperta della Tomba di Pietro non aveva solide basi da un punto di vista archeologico o scientifico, e i dissidi interni tra gli studiosi discordi sulle conclusioni della Guarducci furono semplicemente zittiti dall’annuncio papale del ritrovamento delle ossa di Pietro. Ci furono indagini ufficiali, udienze, colloqui per appurare la verità ma non si venne a capo di nulla, o meglio il Vaticano preferì non ascoltare Ferrua e altri specialisti.

La Santa Sede, nonostante i tanti pareri contrari, voleva ad ogni costo legittimare la sepoltura di Pietro sotto la Basilica, e forzò la mano alla Guarducci; infine Papa Paolo VI decretò che si trattava delle ossa di Pietro, ufficializzandolo con l’udienza del 26 giugno 1968.

La nicchia nelle Grotte Vaticane in cui furono riposti i contenitori di plexiglass con le presunte ossa dell’apostolo Pietro.

Ma le ombre si addensavano sui risultati delle indagini archeologiche: infine Margherita Guarducci nelle sue memorie, riferì di essere stata tradita e abbandonata dal Vaticano ma mantenne le sue posizioni riguardo agli scavi fino alla morte, nel 1997.

LE FONTI TRADIZIONALI

In questo puzzle così complesso ci si è basati sulla tradizionale credenza – che risale almeno al 300 d. C. – secondo cui lo ossa dell’apostolo Pietro erano oggetto di venerazione già prima dell’epoca costantiniana. Le fonti che permettono la ricostruzione topografica sono: i testi di Eusebio di Cesarea, di Tacito (Ann. 15.39.2 e 15.44) e di Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 74) e il Liber Pontificalis, una raccolta di notizie biografiche sui pontefici) che offre notizie particolareggiate ma a volte difficili da confermare per la mancanza di ulteriori fonti. Va detto che queste tradizioni si svilupparono di pari passo col culto delle reliquie, che erano fondamentali per affermare la superiorità di una sede ecclesiastica e spesso si veneravano reliquie false.

Ma c’è un’altra fonte, considerata dagli storici accurata e degna di fiducia, che costituisce la base della fede cristiana ed Ebraica che stranamente non fu consultata in questo caso: la motivazione è semplice e chiara, essa raccontava una storia diversa da quella della secolare tradizione della Chiesa di Roma riguardo alla presenza di Pietro a Roma. La fonte in questione è la Bibbia.

IL RESOCONTO STORICO DEL NUOVO TESTAMENTO: PIETRO NON RAGGIUNSE MAI ROMA

Le Scritture Greche affermano che mentre Paolo fu inviato come missionario ai pagani (incirconcisi) e quindi a Roma, Pietro fu invece inviato dagli anziani di Gerusalemme nell’area orientale del mondo conosciuto ai “circoncisi” Ebrei (Gal. 2:9), tra cui la Samaria (Atti 8:14) e l’area di Babilonia.

In 1 Pt 5:13 Pietro scrive: ““Colei che è in Babilonia, eletta come voi, vi manda i suoi saluti”. Qualcuno ha voluto vedere nell’indicazione Babilonia la città di Roma, per indicare che egli si trovava là. Si tratta di una affermazione senza basi, perché Pietro fu in effetti inviato anche a Babilonia, dove esisteva una fiorente comunità giudaica. Inoltre l’indicazione geografica è inserita nei saluti, dopo aver menzionato chiaramente altre zone geografiche nella lettera senza alcun riferimento segreto alternativo. Tra l’altro un saluto semplice non richiede una simbologia elaborata. Pietro intendeva effettivamente Babilonia, poiché quella lettera era inviata a tutti i circoncisi che si trovavano in Oriente, Asia Minore e anche Babilonia come si evince da 1 Pt 1:1.

Inoltre Paolo verso il 56 d. C. scrive salutando una trentina tra i Cristiani di Roma ma non menziona Pietro. Più avanti scrisse da Roma 6 lettere, tutte molto importanti e anche durante le persecuzioni più infuocate di Nerone, e non menziona neppure una volta Pietro (2 Timoteo 1:15-17; 4:11) che invece viene chiaramente descritto in altri momenti quando i due si incontrarono in altre città come Antiochia (Gal. 2:11-14). Il resoconto storico di Atti menziona l’arrivo di Paolo a Roma al mercato di Appio e alle Tre Taverne dove si incontrò con i fratelli cristiani ma Pietro non c’era.

Quindi le Scritture Greche Cristiane affermano chiaramente che Paolo operò a Roma ma Pietro non vi giunse mai perché fu mandato a predicare come missionario nell’area medio orientale.

Sembrerebbe tutto chiaro: le ossa sepolte nelle casse di plexiglass nelle Grotte Vaticane non sono quelle di Pietro. Ma allora dove sono?

I SEPOLCRI DEL DOMINUS FLEVIT

Un ulteriore colpo di scena in questo thriller archeologico ebbe luogo nel 1953, quando nel sepolcreto del Dominus Flevit, a Gerusalemme si scoprirono una serie di ossari con i nomi menzionati nei Vangeli, Marta, Maria, Lazzaro, e altri ma soprattutto uno con un’epigrafe in aramaico: era il nome antico di Pietro, Shimon Bar Yonah, Simone figlio di Giona.

Ma questa, è un’altra storia, come la precedente narrata nei dettagli nel thriller IL SETTIMO SEPOLCRO (P. Tombetti, Eremon Edizioni, qui il booktrailer). Approfondiremo i segreti del Dominus Flevit in un ulteriore articolo.

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BIBLIOGRAFIA

B. M. Apollonj Ghetti, A. Ferrua, E. Josi, E. Kirschbaum, Esplorazioni sotto la confessione di san Pietro in Vaticano eseguite negli anni 1940-1949, Tip. Poliglotta Vaticana, 1951

P.B. Bagatti, J.T. Milik, Gli scavi del Dominus Flevit, Tipografia PP Francescani, Gerusalemme, 1958

A. Ferrua, B.M. Apollonj Ghetti, E. Kirschbaum et. al., Esplorazioni sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano Eseguite negli anni 1940-1949, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1951

A. Ferrua, “La tomba di San Pietro”, in La Civiltà Cattolica, 3 march 1990, pp. 460-7; “Pietro in Vaticano”, in La Civiltà Cattolica, 17 march 1984, pp. 573-81

E. Kirschbaum, Die Gräber der Apostelfürsten, Frankfurt am Main, 1957

M. Guarducci, Le reliquie di Pietro sotto la Confessione della Basilica Vaticana, EAD, Città del Vaticano 1965.

M. Guarducci, Le reliquie di Pietro sotto la Confessione della Basilica Vaticana: una messa a punto, EAD, Roma 1967

M. Guarducci, Le reliquie di Pietro in Vaticano, IPZS, Roma 1995.

P. Tombetti, Il Settimo Sepolcro, Eremon Edizioni, Latina, 2009/2019

J. Toynbee, John Ward Perkins, The Shrine of St. Peter and the Vatican Excavations, London, Longmans, Green, 1956

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